TRISKELION: antiche leggende avvolte nella nebbia.
Un racconto originale di Jonathan Gabrieletto
Capitolo 1: Un brutto presentimento
La nebbia era più fitta del solito e la luce fioca del vecchio lampione bastava a malapena per scorgersi le mani. Il frangere delle onde sulla Black Shore s’udiva ormai nitidamente. Briòn aveva vagato tutta la sera, e percorso in tondo l’intera Laxey, assorto nei suoi pensieri.
Il libro esitava a prendere forma, e l’ispirazione, che l’aveva illuso nei mesi estivi come un giovane amore, sembrava averlo abbandonato preferendo forse un clima più mite a quello autunnale sull’Isola di Man.
Nell’istante in cui tornò in sé e scorse il molo, volse lo sguardo alle sue spalle, dov’era Ben Hur, il suo labrador, che fedelmente l’aveva seguito, per ore e ore, senza far troppe domande.
Blacksmith, la taverna di Càel sulla New Road, doveva aver chiuso da poco perché l’oste, armato d’ombrello, stava percorrendo spedito la stradicciola scoscesa e gli si faceva incontro con l’aria di chi ha molto da dire.
Sarebbe stata quella la notte più irrazionale delle loro vite, ma questo ancora non potevano saperlo.
«Briòn! Grazie al cielo sei ancora in giro!» ansimò Càel, il fiato corto e il viso, solitamente rubicondo e allegro, tirato in una smorfia di preoccupazione. L’ombrello, un vecchio modello a cupola con qualche stecca piegata, sembrava un’estensione del suo braccio teso, come a voler fermare il tempo o Briòn stesso. Il vento, che si era alzato improvvisamente, gli scompigliava i pochi capelli grigi rimasti e faceva vibrare il tessuto dell'ombrello. Ben Hur si avvicinò all’oste scodinzolando, cercando una carezza che Càel, troppo agitato, non gli concesse.
«Càel? Che succede? Hai una faccia…» Briòn interruppe la frase, notando l’autentico terrore negli occhi dell’amico. Non era il solito Càel che si lamentava delle tasse o dell’ultimo cliente difficile. C’era qualcosa di profondamente angoscioso nel suo sguardo.
«È Elara… mia nipote,» - riuscì a dire l’oste con voce roca - «Non è tornata. Doveva essere a casa cinque ore fa, dopo aver aiutato la zia al negozio di ceramiche a Douglas. Ha preso l’ultimo autobus, ma… non è mai arrivata. È scomparsa.».
Briòn sentì un brivido freddo percorrergli la schiena, più pungente di quella insopportabile umidità autunnale. Elara era una ragazza solare, diciassette anni appena compiuti, con una passione per le antiche leggende dell'isola e un sorriso capace di sciogliere un ghiacciaio. Era la luce degli occhi di Càel e di sua moglie, Moira.
«Hai chiamato la polizia?» chiese Briòn, cercando di mantenere un tono calmo, pratico.
«Sì, sì, certo. L’ispettore Davies ha detto che manderà qualcuno, ma con questa nebbia… e ha minimizzato, capisci? “Probabilmente si è fermata da un’amica, Càel, vedrai che domattina salta fuori”. Ma io la conosco, Briòn! Non farebbe mai una cosa del genere senza avvisare. Mai!»
La voce di Càel si incrinò su quel “mai”. «E c’è dell’altro.»
Il cuore di Briòn rimbalzava nel petto.
«Poco fa» continuò Càel, abbassando la voce come se temesse di essere ascoltato da orecchie invisibili, nascoste nella nebbia, «mentre chiudevo, ho visto delle luci. Lassù.»
Indicò con un cenno del capo verso la collina sovrastante il villaggio, in direzione delle vecchie miniere, le Great Laxey Mines, abbandonate da decenni ma ancora imponenti e sempre visibili, con quel grande cancello metallico proprio di fronte all’ingresso.
«Non erano fari di macchine, né torce. Erano… diverse. Tremolanti, come fuochi fatui. E venivano proprio dalla zona dell'ingresso della vecchia miniera di piombo, quella che chiamano ‘Snaefell Mine’, anche se non è direttamente sul monte.»
«Fuochi fatui?» - replicò Briòn aggrottando le sopracciglia.
Era un uomo di lettere, Briòn, un pragmatico, ma vivere sull’Isola di Man ti insegnava a non scartare troppo in fretta le storie folkloristiche. L’isola era intrisa di leggende, di Mooinjer Veggey – il piccolo popolo – e di antichi rituali.
«Non lo so cosa fossero, Briòn. Ma ho un brutto, bruttissimo presentimento. Elara era affascinata da quei posti. Diceva che sentiva… il richiamo della storia. E se fosse andata lassù? Da sola, con questo tempo?»
Un’idea terribile iniziò a farsi strada nella mente di Briòn. « Càel, dobbiamo andare a vedere. Subito.»
«Ma la polizia…»
«La polizia arriverà. Ma se Elara è lassù ed è in pericolo, non possiamo aspettare.»
Briòn non era uno di quegli eroi dei film d’azione, ma la preoccupazione per Elara e l’urgenza nella voce di Càel lo scossero dal suo torpore creativo. Forse, pensò con una punta di cinismo che subito represse, questa era la scossa di cui aveva bisogno. O forse stava solo per cacciarsi in un guaio molto più grande di lui.
«Torno alla taverna e prendo delle torce potenti» - disse Càel, già più risoluto - «Tu hai stivali robusti, vero? Il sentiero sarà un pantano».
Briòn annuì, guardando i suoi consunti e fradici scarponcini da trekking.
«Andiamo Ben Hur!» - Il labrador, come se avesse capito la gravità della situazione, smise di scodinzolare e si mise al fianco di Briòn, con gli occhi attenti e fissi sulla figura dell'oste che si affrettava a tornare alla taverna.
Mentre aspettava, Briòn alzò lo sguardo verso la collina. La nebbia inghiottiva ogni cosa, rendendo invisibile il profilo delle vecchie strutture minerarie. Le luci di cui parlava Càel non si vedevano più, se mai c’erano state. Ma un senso di oppressione, quasi una presenza fisica, sembrava emanare da quella direzione. Era la stessa sensazione che a volte provava visitando gli antichi cerchi di pietre o i tumuli funerari sparsi per l’isola: un eco del passato, potente e indecifrabile.
Càel tornò con due grosse torce e una vecchia giacca cerata. «Ecco, tieni questa. E ho preparato un thermos di caffè forte, zuccherato. Per tenere gli occhi aperti.»
Si incamminarono, lasciandosi alle spalle la New Road, imboccando un sentiero appena visibile che si inerpicava sul fianco della collina. La pioggerellina autunnale, quasi impalpabile prima, cominciò a cadere più fitta, rendendo il terreno molto più scivoloso. Ben Hur procedeva sicuro davanti a loro, il fiuto a terra, ogni tanto fermandosi per assicurarsi che i due umani lo seguissero.
Il silenzio era rotto solo dal loro respiro affannoso, dal fruscio degli indumenti impermeabili e dallo sgocciolio dell’acqua dagli alberi spogli. Più salivano, più la nebbia si faceva densa, trasformando le sagome familiari degli alberi e dei cespugli in forme spettrali. Le luci di Laxey sotto di loro scomparvero, inghiottite da quella coltre fitta e silenziosa.
«Quanto manca all’ingresso della Snaefell Mine?» - chiese Briòn.
«Ancora una decina di minuti di salita, forse quindici con questo fango» - rispose Càel mentre con la torcia tagliava un cono di luce incerta davanti a sé.
«È da quella parte» aggiunse, indicando un punto indefinito alla loro destra. «Ricordo che Elara mi chiese il permesso di esplorare le rovine qualche settimana fa. Le dissi di stare attenta, che quei posti sono pericolosi. Crolli, pozzi nascosti… Ma lei era testarda. Diceva di voler scrivere qualcosa sulla storia dei minatori, sulle loro vite.»
Il cuore di Briòn si strinse. Lui era uno scrittore, conosceva bene il demone della curiosità, quella irresponsabile spinta a cercare storie nei luoghi dimenticati. E se Elara, nella sua innocente ricerca, si fosse imbattuta in qualcosa che non avrebbe dovuto vedere?
Finalmente, dopo quella che sembrò un’eternità, il terreno si fece pianeggiante. Tra la nebbia iniziarono a delinearsi le prime, spettrali strutture: muri diroccati, archi di pietra che sembravano fauci oscure, i resti arrugginiti di macchinari. Erano arrivati al cancello bruno rossastro, all’imboccatura della vecchia miniera. L’aria si fece più fredda, carica di un odore metallico e dell’umidità stagnante.
«Le luci le ho viste qui» – sussurrò Càel, puntando la torcia verso un’ampia apertura nel fianco della collina, parzialmente ostruita da detriti e da una rudimentale recinzione di legno marcio, chiaramente divelta in un punto – «sembravano provenire dall’interno».
«Elara!» urlò Briòn. La sua voce, che suonava innaturalmente forte in quel silenzio spettrale, venne subito inghiottita nel buio. Nessuna risposta.
Ben Hur iniziò a lamentarsi, un brontolio basso e insistente, il pelo leggermente irto sulla schiena. Si avvicinò con cautela al varco nella recinzione, annusando il terreno.
«Cosa c’è, amico mio? Hai sentito qualcosa?» mormorò Briòn, seguendolo. Puntò la sua torcia oltre l’apertura. Il fascio di luce si perdeva nell’oscurità di una galleria che sprofondava nelle viscere della terra. Una cadenza ritmica di piccole gocce d’acqua cadeva dal soffitto sul pavimento melmoso.
Càel si unì a lui. «Non mi piace questo posto, Briòn. Non mi è mai piaciuto».
Fu Ben Hur a trovare il primo indizio. Con un piccolo guaito, iniziò a raspare delicatamente con la zampa vicino a un cespuglio spinoso, appena dentro l’imboccatura della miniera. Briòn diresse la luce in quel punto. Impigliato tra i rovi, c’era un pezzo di tessuto colorato: una sciarpa di lana, lavorata a mano con un motivo a spirali che Briòn riconobbe immediatamente. Apparteneva a Elara. L’aveva vista indossarla molte volte.
Càel emise un suono strozzato, quasi un singhiozzo. «È sua. Gliel’ha fatta la nonna per il suo compleanno»
Ora non c'erano più dubbi. Elara era stata lì.
«Dobbiamo entrare» - disse Briòn, anche se ogni fibra del suo essere urlava il contrario. L’idea di avventurarsi in quelle gallerie buie e potenzialmente instabili lo terrorizzava, ma il pensiero di sua nipote, sola e forse ferita, era ancora più forte.
«Aspetta» - disse Càel, illuminando un punto poco distante da dove avevano trovato la sciarpa. C’era qualcosa che luccicava nel fango, qualcosa di piccolo e metallico. Si chinò con cautela, raccogliendolo. Era un ciondolo. Un triskelion d’argento, il triscele simbolo dell’Isola di Man, finemente lavorato. Ma non era uno di quelli che si comprano nei negozi di souvenir. Sembrava antico, consumato dal tempo, e stranamente freddo al tatto nonostante fosse stato protetto dal fango.
«Questo no… questo non è di Elara» - disse Càel con voce tremante - «Non l’ho mai visto prima. Ma sembra… importante».
Briòn prese il ciondolo. Era pesante, più di quanto le sue dimensioni suggerissero. Mentre lo rigirava tra le dita, una folata di vento gelido uscì dall’imboccatura della miniera, portando con sé un suono che non era più il gocciolio dell’acqua né il lamento del vento tra le rocce. Un sussurro, o forse più d’uno, indistinto ma innegabilmente presente, che sembrò pronunciare qualcosa in una lingua sconosciuta.
Ben Hur s’acquattò a terra, ringhiando sommessamente.
Briòn e Càel si scambiarono uno sguardo fugace. La preoccupazione si era trasformata in seria inquietudine. Le leggende dell’isola, quelle storie che Briòn aveva sempre trattato con affettuoso scetticismo, sembravano ora terribilmente plausibili.
«Cosa caspita succede qui?» - mormorò Càel stringendosi nella giacca.
Briòn non rispose. Fissava il triskelion d’argento che teneva in mano. Percepiva un formicolio diffondersi dal palmo al braccio. Lo scoramento per quella mancanza d’ispirazione, cercata invano per mesi, era acqua passata ora, solo un lontano ricordo, sostituita da un vortice di domande e dalla sensazione che quella notte avrebbero varcato una soglia, mettendo piede in un mistero molto più antico e profondo di quanto potessero immaginare.
La scomparsa di Elara era solo il primo filo di una matassa intricata e oscura, e il triskelion che stringeva tra le dita sembrava esserne la chiave.
«Dobbiamo chiamare di nuovo l’ispettore Davies» – disse Briòn con tono risoluto nonostante i tumulti interiori – «e dirgli di venire qui. Subito. E di portare rinforzi! Forse anche qualcuno che ne capisca di… come dire…storia locale».
Mentre Càel, con le mani tremanti, cercava di comporre il numero sul suo cellulare, lottando contro la scarsa ricezione, Briòn continuava a fissare l’imboccatura della miniera. La nebbia si addensava ulteriormente intorno ad essa, come a custodire un segreto. E per la prima volta da quando era iniziata quella lunga, terribile serata, Briòn si rese conto che il suo libro avrebbe potuto aspettare. C’era una storia ben più urgente che si stava dipanando davanti ai suoi occhi, una storia scritta con l’inchiostro dell’inquietudine e dell’incertezza sulle pagine umide e tenebrose dell'Isola di Man. E lui, volente o nolente, ne era diventato protagonista.
Il telefono di Càel finalmente prese la linea. «Ispettore Davies? Sono di nuovo Càel Kinvig… Sì, da Laxey. Riguarda mia nipote Elara… Abbiamo trovato qualcosa. Siamo alle vecchie miniere, l'ingresso della Snaefell… Sì, la sciarpa… e qualcos'altro… Ispettore, credo… credo che dobbiate venire subito. C'è qualcosa di molto strano qui.».
Dall’altro capo del telefono, la voce dell’ispettore, seppur ancora velata di scetticismo, tradì una nota di sincera preoccupazione. «Rimanete dove siete. Non toccate nulla. Arrivo subito».
La comunicazione si interruppe. Càel intascò il telefono con il volto ancora pallido.
«Ha detto che manderà una squadra. E che sta cercando di contattare il dottor Armitage».
«Armitage? Lo storico?» - chiese Briòn, sorpreso. Alaric Armitage era il curatore del Manx Museum, un’autorità indiscussa su folklore e archeologia dell’isola, un uomo brillante, ma terribilmente eccentrico. Se Davies aveva deciso di coinvolgerlo, significava che, forse, anche la polizia sospettava che non si trattasse di una semplice bravata adolescenziale.
«Pare di sì» - confermò Càel - «ho menzionato il ciondolo e…»
Non terminò la frase. Un rumore improvviso, proveniente dalle profondità della miniera, li fece sobbalzare entrambi. Un suono sordo, come di roccia che si muove, seguito da un eco prolungato che sembrava risalire dalle profondità di abissi dimenticati. Ben Hur si rizzò sulle zampe, abbaiando furiosamente verso l’oscurità.
Briòn strinse più forte la torcia con il cuore in gola. La tentazione di indietreggiare era forte, ma il pensiero di Elara, forse intrappolata là sotto, lo ancorava al suolo. Si scambiò un’occhiata con Càel. Non c’era bisogno di parole. Nonostante il terrore galoppante, nessuno dei due si sarebbe mosso da lì.
La luce tossicchiante del lampione sulla New Road era già un ricordo lontano, quasi appartenente ad un’altra vita. Quella era la realtà, adesso: nebbia, freddo, oscurità. Una miniera abbandonata e un antico, inquietante simbolo.
La notte più lunga e irrazionale delle loro vite era appena iniziata e il triskelion stava per svelare il suo mistero.
CONTINUA….
2 giugno 2025
Jonathan Gabrieletto